Il territorio pedemontano del Grappa seguì la progressiva integrazione del territorio dei Veneti nell'ordinamento romano. L'integrazione progredì tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. senza alcuna contrapposizione tra i due popoli. Il territorio di Colmirano appartenne al municipium di Acelum (Asolo), fu ascritto alla tribù Claudia e fu abitato dalla famiglia senatoria dei Rapidii di Acelum, che eressero nella conca di Alano una villa rustica e i "pagi" dai quali, su precedenti insediamenti venetici, si svilupparono in seguito i villaggi di Alano, Colmirano, Fener, Campo e Quero.
Il territorio in cui sorge Colmirano non è mai citato nelle fonti storiche risalenti all’epoca romana. Esistono invece numerose citazioni dei due principali centri dell’area: Feltria (Feltre) a nord e Acelum (Asolo) a sudest, mentre Tarvisium (Treviso) sorgerà solo in epoca più tarda.
In epoca romana l'attuale territorio di Alano faceva parte dell'Ager Acelanum, ovvero del territorio del municipio di Acelum (Asolo). Lo si deduce da un'iscrizione su lastra di rame rinvenuta ad Asolo nel 1307 e oggi perduta, della quale ci sono giunte alcune trascrizioni. L'iscrizione reca la data del 116 a.C. ed è un lodo senatorio recante la puntuale descrizione dei confini tra Acelum (Asolo) e Patavium (Padova).
I confini nord-orientali del territorio di Acelum sono così descritti:
(…) e poi in linea retta lungo la via Verusca fino al grande fiume bianco detto Plabes presso le proprietà dei Salinatori e dei Curzi: lì c’è il cippo confinario che reca le lettere T P H; e quindi lungo il fiume salgono fino alle proprietà dei Vespesiani; lì c’è il cippo confinario presso il castrum Narvesium; e quindi lungo il fiume fino alla Villa Viturianam presso la proprietà dei Vituri Victuriani, al di qua del fiume; lì c’è il cippo confinario; e quindi lungo la riva destra del fiume fino al Castrolum Querculum; lì c’è il cippo confinario con la scritta: “Alla dea Fortuna dei Pedemontani Inferiori” (...)
È interessante rilevare che nel passo riportato, posto che sia autentico, è riportata la denominazione romana del Piave (Plabes), di Nervesa (Castrum Narvesium), Vidor (Villa Viturianam), Quero (Castrolum Querculum, ovvero "il piccolo castrum dei quercioli") e degli Asolani (Pedemontani Inferiori).
L'appartenenza del territorio di Alano e Quero all'Ager Acelanum è confermata indirettamente da due iscrizioni funerarie che menzionano i membri di una famiglia di origine romana.
In una sua opera del 1616 il medico e storico trevisano Bartolomeo Burchelati (o Burchiellati) registrò la presenza ad Alano di una lapide frammentata che dice essere collocata “non longe a superiori in pila quadam ecclesiae”, ovvero non lontano dalla sommità di un pilastro (o del campanile) presso la chiesa. Non sappiamo se Burchelati si riferisse alla chiesa di S. Pietro (sorta prima del 1297 come cappella della pieve di Quero e consacrata come chiesa parrocchiale di Alano nel 1503) o alla chiesa di S. Antonio Abate (che pare sia subentrata come chiesa parrocchiale nel 1535, intitolata ai santi Antonio Abate e Pietro Apostolo).
Secondo Burchelati, la lapide recava inciso il seguente testo:
LUCIO RAPIDIO GIUSTO, FIGLIO DI CAIO, QUESTO SEPOLCRO
CON PROSPETTO DI PIEDI … E FIANCO DI PIEDI 25
FECE DA VIVO PER SÉ E PER I SUOI CARI
La lapide, risalente probabilmente al I secolo d.C., oggi non è più rintracciabile, probabilmente distrutta o dispersa. Ma la presenza della gens Rapidia è ulteriormente testimoniata nel 1664, anno in cui Pietro di San Fior, nobiluomo di Serravalle che ricopriva il ruolo di giudice alle vettovaglie a Padova, interpella per lettera l’erudito padovano Sertorio Orsato sulla seguente iscrizione, che ha visto su un’antica lapide collocata nella piazza di Quero:
CAIO RAPIDIO RUFO, FIGLIO DI CAIO, QUATTUORVIRO EDILICIA POTESTATE,
PER SÉ E PER LA MOGLIE SEMPRONIA TERZA, FIGLIA DI LUCIO,
E PER IL FIGLIO CAIO RAPIDIO RUFINO, FIGLIO DI CAIO,
E PER IL NIPOTE CAIO RAPIDIO, FIGLIO DI CAIO,
E PER LA NIPOTE RAPIDIA MASSIMA, FIGLIA DI CAIO,
FECE REALIZZARE PER TESTAMENTO
Questa seconda la lapide esiste tuttora ed è esposta all'esterno della chiesa di Quero, fissata sulla parete sud e protetta da una lastra trasparente.
La tipologia delle lapidi e il sistema onomastico in esse utilizzato sono indubbiamente romani e non hanno elementi di tipo venetico. Questa caratteristica, unitamente alla struttura dei caratteri e delle decorazioni della lapide di Quero, inducono a datare le lapidi ad un'epoca successiva alla piena integrazione dell’area nell’ordinamento romano, ovvero alla fine del I o all'inizio del II secolo d.C.
Nel loro complesso, le due epigrafi di Alano e Quero attestano la presenza in loco delle gentes Rapidia e Sempronia nel corso del I-II secolo d.C.
Dei Rapidii citati nella lapide di Quero possiamo ricostruire quattro generazioni. La lapide cita infatti il capostipite Caio Rapidio, suo figlio Caio Rapidio Rufo e la moglie di quest’ultimo Sempronia Terza.
Stando al suo cognomen (Rufus, rosso) Caio Rapidio Rufo doveva avere i capelli rossi o la carnagione arrossata o entrambe queste caratteristiche fisiche. La stessa iscrizione ci dice che Caio e Sempronia avevano avuto almeno un figlio maschio: Caio Rapidio Rufino, il cui cognomen è evidentemente il diminutivo di quello del padre. Caio Rapidio Rufino, a sua volta, aveva avuto almeno due figli, entrambi citati nella lapide: Caio Rapidio e Rapidia Maxima.
Ma il cognomen Maxima è indice dell’esistenza di almeno altre due figlie femmine che, secondo l'uso romano, dovevano chiamarsi Rapidia Secunda e Rapidia Tertia. Infatti, Rapidia poteva assumere il cognomen Maxima, che significa “la più grande”, solo avendo almeno due sorelle. Se le figlie femmine della coppia fossero state solo due, la prima nata si sarebbe chiamata Rapidia Prima o Rapidia Maggiore (ma non Rapidia Maxima) e la seconda Rapidia Secunda o Rapidia Minore.
Del Lucio Rapidio Giusto, figlio di Caio, menzionato nella lapide di Alano non sappiamo altro, salvo che doveva appartenere alla medesima famiglia, data la ricorrenza, nel nome del padre, del prenomen Caio e del nomen Rapidio, proprio della gens.
Non disponendo più della lapide di Alano, non possiamo datarla e quindi non possiamo sapere se fosse più antica, coeva o successiva alla lapide di Quero. Lucio potrebbe quindi essere un ascendente di Caio, un discendente o il membro di un diverso ramo della famiglia documentata dalla lapide di Quero. Stando al nome Lucio e alle regole dell'onomastica romana, il capostipite di questo ramo separato della famiglia potrebbe avere avuto il nome Lucio.
La lapide di Quero attesta che Caio Rapidio Rufo aveva ricoperto la carica di quattuorviro aedilicia potestate: un grado di magistratura elevato che certamente non si attaglia alle dimensioni che potevano avere in epoca romana gli abitati di Alano e Quero, qualificabili come vici (villaggi) ma certamente non come municipia. In epoca romana, solo i centri di una certa dimensione (municipia) potevano essere retti da duoviri (quelli di medie dimensioni) o quattuorviri (quelli più grandi), ovvero da due o da quattro magistrati che duravano in carica un anno.
Quando il municipium era retto da quattuorviri, due di loro erano investiti dello iure dicundo e due dell’aedilicia potestate. I primi esercitavano la giurisdizione civile e penale, convocavano e presiedevano le sedute del senato cittadino e le assemblee popolari, attribuivano gli appalti di opere pubbliche e chiamavano i cittadini alle armi. I secondi, di rango leggermente inferiore ai primi, curavano l'approvvigionamento della città (cura urbis), la manutenzione di strade, edifici pubblici e templi (cura viarum et aedium), la vigilanza sulla politica annonaria (cura annonae) e avevano infine funzioni di polizia.
Dunque, Caio Rapidio Rufo deve avere assolto il suo mandato di massimo magistrato cittadino in un centro di dimensioni tali da poter essere qualificato come municipium. All’epoca il territorio su cui sorgevano i vici di Alano e Quero poteva chiamarsi Pagus Rapidianus e apparteneva probabilmente al municipium di Acelum. In tal caso, l'incarico assolto da Caio Rapidio Rufo avrebbe comportato la sua appartenenza alla cittadinanza di Acelum, alla tribù Claudia, cui erano ascritti i cittadini di Acelum, e al senato (ordo decurionum) della città.
Caio Rapidio Rufo doveva essere una persona facoltosa: la carica di quattuorviro poteva essere infatti affidata solo a cittadini romani nati liberi, che godevano dei diritti civili, di morale e pietas irreprensibili e di censo elevato.
La presenza dei Rapidii nella conca di Alano e Quero – che chiameremo Pagus Rapidianus, secondo l'uso romano – presuppone l’esistenza nell’area di una villa rustica, ovvero di una villa di campagna.
La villa rustica era un’abitazione signorile annessa ad un fondo agricolo ed era, in epoca romana, la tipica forma di sfruttamento del territorio agricolo (ager). La presenza delle ville rustiche era il segno tangibile dell'introduzione nella Venetia dei metodi di produzione agricola tipici del mondo romano, ed era pertanto indicativa dell'avvenuta integrazione dell'area nell'ordinamento romano. Si trattava di una casa-fattoria collocata in genere al centro o a margine di una proprietà agricola, ed era un’unità autosufficiente dedicata alla produzione di derrate agricole e alimentari e all'allevamento del bestiame.
Spesso la villa era anche luogo di villeggiatura del proprietario, di solito una persona agiata che normalmente viveva in un centro cittadino. La villa rustica si trovava al centro della proprietà terriera ed era circondata da un insieme di fattorie abitate dai coloni che coltivavano i poderi in cui era suddivisa la proprietà. I coloni erano cittadini liberi che accettavano di lavorare per il proprietario terriero e di coltivare le sue terre avvalendosi eventualmente di schiavi.
Il fondo agricolo sul quale insisteva la villa era indicato, di regola, con il nome del proprietario. Possiamo quindi immaginare che nella zona di Alano e Quero dovesse esistere un fundus Rapidianus, ovvero un fondo agricolo di proprietà della famiglia dei Rapidii.
La villa rustica doveva essere collocata in posizione felice rispetto al fondo, occupando probabilmente la parte pedemontana di una delle terrazze coltivabili delimitate dai corsi d'acqua dell'area. Ciascuna terrazza (le attuali campagne di Alano, Colmirano, Campo e Quero) poteva essere sede della villa o di una fattoria colonica. Intorno alla villa e alle fattorie dovevano esistere anche le abitazioni dei villici e degli schiavi cui era affidato il lavoro della terra, l'allevamento del bestiame e la produzione delle derrate (coltivazioni, prodotti agricoli, formaggi, carni e salumi).
Gli insediamenti costituiti dalla villa, dalle fattorie coloniche e dalle abitazioni del personale diedero luogo, col passare del tempo, ai vici che oggi chiamiamo Alano, Colmirano, Campo, Fener e Quero.
Oltre che per le lapidi di Alano e Quero, la gens Rapidia è nota agli esperti di epigrafia latina per l'esistenza di altre iscrizioni rinvenute a Roma, Caserta, Ostia, Ravenna e Senj (Segna, in Croazia). Alcune di queste lapidi menzionano personaggi che operano in posizioni di responsabilità nel mondo delle corse dei cavalli e dei carri nel circo. Tra essi appaiono Quinto Rapidio Mulione, figlio di Quinto, e Quinto Rapidio Sepullio, figlio di Quinto Rapidio Xenodoto.
Il primo opera nel Circo Massimo di Roma in qualità di giudice delle corse. Di lui si afferma nella lapide che appartiene alla fazione veneta, una delle quattro fazioni che correvano nel circo caratterizzata dal colore venetus (azzurro). Il secondo è qualificato come procurator dromi, ovvero organizzatore di corse. Suo padre, Quinto Rapidio Xenodoto, ha un cognomen di origine greca che significa “giunto dall'estero”, il che induce a ritenere che potrebbe essere nato da padre romano e madre greca ed essere poi tornato a Roma portando con sé il cognomen ricevuto in Grecia.
Dalle epigrafi emerge una vocazione della gens Rapidia nel campo dell’organizzazione e della gestione delle corse dei cavalli e dei carri. Possiamo pertanto immaginare che l’attività dei Rapidii di Asolo e Colmirano fosse incentrata sull’allevamento dei cavalli da corsa, attività che peraltro prosperava nella Venetia fin dall’epoca arcaica. Possiamo pensare che i migliori puledri allevati dai Rapidii in quello che abbiamo chiamato Pagus Rapidianus (la conca di Alano e Quero) fossero successivamente ceduti agli organizzatori di corse nel circo e che tra questi vi fosse il ramo romano della famiglia, che impiegava i cavalli nel circo della capitale.
Forse – ma non abbiamo prove – l’occupazione principale della famiglia di Quinto Rapidio Rufo consisteva proprio nell’allevamento dei cavalli da corsa, in un'area, quella della conca di Alano, non particolarmente adatta all'agricoltura rispetto alle campagne della pianura trevisana.
Poiché i membri della famiglia dei Rapidii sono menzionati in due lapidi sepolcrali, è lecito pensare che la loro sepoltura si trovasse nella conca di Alano. In particolare, la lapide di Alano, che è un terminus sepulchri, ci informa che il sepolcro di Lucio Rapidio Giusto doveva occupare un appezzamento a pianta quadrangolare con fianco di almeno 25 piedi romani (circa 7,5 metri). Il prospetto affacciato sulla pubblica via doveva avere estensione pari o doppia, secondo l’uso prevalente.
Il sepolcro dei Rapidi era dunque collocato all’interno di un recinto funerario entro il quale trovavano posto l’ustrinum (il luogo dove avveniva la cremazione), gli altari sacrificali (che servivano per rendere omaggio ai defunti), i sarcofagi o uno o più sepolcri segnati con cippi, stele o capitelli più complessi. Secondo l’uso romano, il proprietario faceva apporre su una lapide (detta terminus sepulchri) le misure dell’area occupata dalle sepolture, in modo che nessun estraneo, col passare del tempo, potesse vantare diritti sull’area stessa.
Delle tombe alle quali dovevano afferire in origine le due lapidi finora non si è trovata traccia. Possiamo tuttavia ritenere che, secondo le leggi e l’uso romano, esse fossero ubicate lungo la strada di accesso ai centri abitati dell’area oppure lungo la Via Claudia Augusta, che attraversava l'area passando per gli attuali centri di Fener e di Quero.
Oltre alle lapidi dei Rapidii, della presenza romana nella conca di Alano e Quero vi sono altre evidenze archeologiche.
La più importante è il miliario romano di Fener recante inciso il numero XI. Il miliario segnava il tracciato della Via Claudia Augusta Altinate che dalla città di Altinum, sul margine della Laguna Veneta, raggiungeva Feltria e proseguiva verso nord attraverso la Reaetia e la Vindelicia (il Tirolo Austriaco e la Baviera) fino a raggiungere Augusta Vindelicorum (l'odierna Augsburg) e il castrum fortificato di Submuntorium (Donauwörth-Nordheim) lungo il corso del Danubio, che segnava il confine dell'Impero romano. Il numero inciso sul miliario di Fener indica esattamente la distanza in miglia romane dalla vicina città di Feltria.
Giunta a Fener, l'antica via romana doveva salire a Colmirano e da qui raggiungere prima Campo e poi Quero attraversando in successione i corsi del Calcino e del Tegorzo.
Il motivo per il quale la Via Claudia Augusta Altinate non proseguiva lungo il corso del Piave, come fa l'odierna via Feltrina, è dovuto al carattere franoso della scarpata sulla riva destra del Piave e alla presenza di tre corsi d'acqua (l'Ornic, il Calcino e il Tegorzo) che in epoca romana dovevano avere una notevole portata complessiva e che confluivano a Fener nel Tegorzo prima di sfociare nel Piave.
In casi simili, i Romani preferivano risalire il corso d'acqua (in questo caso il Calcino) fino a trovare il punto più favorevole per la costruzione di un ponte. Nel caso specifico, la strada attraversava l'Ornic e poi risaliva la campagna di Colmirano e proseguiva fino al punto in cui esiste tuttora un antico ponte in pietra che attraversa il calcino.
Si tratta di un manufatto non ancora studiato a fondo ma che mostra evidenti le caratteristiche costruttive dei ponti di epoca romana, ben diverse da quelle dei ponti medievali.