L'Economia

La Terraferma

L'economia del Trevisano si sviluppa nel Cinquecento e nel Seicento quando il patriziato veneziano sposta gradualmente i propri interessi dal commercio marittimo, che segue sempre più le rotte oceaniche, alla Terraferma veneta, dove nascono e prosperano prima le attività agricole e poi anche le attività manifatturiere. La "piantada alla veneta" consente lo sviluppo dell'allevamento dei bachi da seta per alimentare la manifattura tessile, che nell'area pedemontana si avvale anche della forza motrice idraulica grazie ai numerosi corsi d'acqua.

Dal commercio marittimo alla Terraferma

Nel corso del Cinquecento, l'economia veneziana attraversa un periodo di evoluzione causata dalla contrazione del commercio marittimo dovuta alla diminuita importanza delle rotte mediterranee rispetto a quelle oceaniche e alla crescente pressione dell'impero Ottomano nel Mediterraneo.
L'apertura delle rotte oceaniche verso le Americhe e l'Oriente ad opera di Portoghesi, Spagnoli, Inglesi e Olandesi priva Venezia del monopolio sul commercio delle spezie e della seta orientale, mentre la crescente pressione dell'Impero Ottomano va riducendo progressivamente l'estensione dei domini veneziani d'oltremare.
L'economia veneziana subisce un graduale processo di cambiamento che porta le famiglie patrizie mercantili a spostare i loro interessi economici e gli investimenti dal mare verso la Terraferma veneta. A partire dalla metà del Cinquecento si verifica quindi una graduale conversione dell'economia veneziana dal settore marittimo alle produzioni agricole e alla manifattura della lana e della seta.

All'esigenza del patriziato veneziano di presidiare i nuovi interessi in Terraferma fa riscontro la comparsa e la rapida diffusione delle ville palladiane, che uniscono la funzione di abitazione signorile alla funzione di centro di gestione delle attività agricole.
La Villa Barbaro di Maser (TV) fu costruita tra il 1554 e il 1560 su progetto di Andrea Palladio

L'interno di Villa Barbaro affrescato da Paolo Veronese

L'evoluzione dell'agricoltura

Nel Cinquecento un profondo mutamento interessa le tecniche agricole con l'introduzione di nuove specie provenienti dal Nuovo Mondo (patate, pomodori e mais), l'adozione della rotazione continua delle colture, la comparsa delle prime macchine agricole meccaniche e l'introduzione di nuovi rapporti contrattuali tra proprietario terriero e contadino.
L'agricoltura conosce una fase di progressivo potenziamento, con attività concentrate prevalentemente in pianura, e alla nascita delle prime attività di tipo industriale che riguardano essenzialmente la produzione di filati e di tessuti di lana e seta e che sono concentrate prevalentemente nella fascia pedemontana, dove è possibile sfruttare l'energia idraulica, grazie alla sovrabbondanza di corsi d'acqua.
L'economia locale nell'area di Colmirano, così come in tutte le aree pedemontane del territorio veneto, conosce un periodo di massima floridità nel Seicento e nel Settecento quando, accanto alle tradizionali occupazioni agricole, si afferma gradualmente  l'occupazione artigianale finalizzata alla produzione tessile.
Funzionale allo sviluppo dell'industria tessile è anche lo sviluppo delle applicazioni della forza motrice idraulica grazie alla presenza dei numerosi corsi d'acqua che attraversano il territorio, con particolare riferimento al Tegorzo, al Calcino e all'Ornic.

La "piantada" alla veneta è tuttora ben visibile in molti punti della campagna trevisana.

Corollario dello sviluppo delle manifatture nella Terraferma veneta è lo sviluppo delle applicazioni idrauliche, con la moltiplicazione, soprattutto nella fascia pedemontana, delle ruote ad acqua

Lo sviluppo della manifattura tessile

I Franzoia seguono l'onda evolutiva delle attività industriali e concentrano i loro investimenti nella manifattura tessile, che si avvale di stabilimenti centralizzati per la produzione di filati e tessuti ma anche di fasi di lavorazione, come l'allevamento dei bachi da seta per la produzione dei bozzoli, affidate all'economia familiare dell'area.
La campagna si punteggia di alberi di gelso che servono sia per la produzione di foglie utilizzate nell'allevamento dei bachi da seta sia come supporto per le viti, che all'epoca non sono ancora disposte secondo la coltivazione a filari, ma vengono "maritate" ai gelsi, o ad altri alberi da frutto che fungono da supporto.  Questa tecnica di coltivazione, pur essendo già applicata in epoca romana, è originale della Terraferma veneta e per questo è nota tuttora come "piantada alla veneta".
Corollario delle attività tessili sono gli investimenti negli opifici idraulici, utilizzati sia autonomamente sia in simbiosi con l'attività tessile.

Nel Seicento e nel Settecento le classi dirigenti venete investono progressivamente nella manifattura tessile della lana e della seta

Carestia e pestilenza

Può sembrare strano, ma uno dei fattori che nel Seicento dettero impulso allo sviluppo dell'economia nella Terraferma veneta furono la carestia e la pestilenza che imperversarono in Italia tra il 1628 e il 1631.

Nel 1628-1629 si manifestò in tutto il Nord-Italia una grave carestia causata dal maltempo, dalle piogge insistenti, dall’esondazione di molti fiumi, da una serie di forti grandinate primaverili e dalla guerra scoppiata nel 1628 tra la Francia, la Spagna e l’Impero Asburgico per la successione dei Ducati di Mantova e del Monferrato. La carestia si manifestò in tutta la sua desolazione nella primavera del 1629, affamando e indebolendo la popolazione. 

L'assalto ai forni in un'illustrazione dei Promessi Sposi 

Abbiamo un quadro degli effetti della carestia in Veneto dal racconto del notaio asolano Giovanni Girolamo Braga:

 

Delli poveri molti morirono di fame. I cittadini non potevano camminare per istrada, né tenere aperte le porte delle loro case, perché erano travagliati da molti poveri piangenti, e lo stesso accadeva a quelli che cavalcavano per le ville. In tutta la notte si sentivano miserabili che domandavano ajuto, e sembravano anime dannate. Presso i cittadini non erano denari e tutte le robe erano carissime.

 

Baldassarre Bonifacio, intellettuale e letterato, arcidiacono di Treviso che sarà poi vescovo di Capodistria, scrisse nel 1629 Il Paltoniere (l’accattone), raccolta di sonetti nei quali  stigmatizzava l’invasione di mendicanti colpiti dalla carestia provenienti dalla montagna e dalla campagna, dai quali la classe abbiente trevisana, poco cristianamente, si sentiva minacciata:

 

I cavoli, le biete e le lattuche

Dimandano umilmente a noi soccorso,

Perché roso il garzuol, mordono il torso

Queste in sembianza umana avide eruche

Frontespizio della cronaca sulla pestilenza a Treviso scritta dal trevisano Giovanni Minoto nel 1632

Ai già gravi effetti della carestia si sommarono nella primavera del 1630 gli effetti di una grave pestilenza, la stessa ricordata dal Manzoni nei Promessi Sposi.

Venezia aveva messo a punto una efficace strategia di difesa dal rischio di contagio basata sui lazzaretti e sulla pratica della quarantena. Fin dal 1423 il senato veneziano aveva deciso di costruire una struttura nella quale ricoverare e curare i malati. Fu adattato un convento nell’isola di Santa Maria in Nazaret, chiamato per brevità Nazaretum. Il nosocomio assunse quindi il nome di Nazzaretto, che per corruzione divenne poi Lazzaretto, vocabolo che da allora fu utilizzato in tutte le città per indicare il luogo destinato alla cura degli appestati e alla quarantena di coloro che erano sospettati di esserlo. Quando c’era notizia di un’epidemia all’estero, i medici veneziani confinavano in quarantena nell’isola del lazzaretto le navi e gli equipaggi in arrivo. Al termine della quarantena, se non si erano manifestati casi di malattia, le navi potevano entrare in porto e scaricare le merci. Era una strategia efficace contro il contagio proveniente via mare.  Ma stavolta la peste giunse in Italia via terra, portata dai lanzichenecchi giunti nel 1628 nel Ducato di Milano per combattere a Mantova e nel Monferrato

Venezia, il Lazzaretto Vecchio, costruito nel 1423

Il morbo si manifestò a Venezia nel mese di luglio del 1630 e imperversò per oltre un anno, esaurendosi solo nel novembre del 1631, dopo aver falciato nel territorio della Serenissima oltre 680 mila persone, ovvero circa un quarto della popolazione della Repubblica, con una punta di oltre 62 mila morti a Venezia, ovvero un terzo della popolazione cittadina. Durante la pestilenza, il doge e il Maggior consiglio fecero voto di edificare un tempio alla Madonna, voto che si concretizzò con l’inaugurazione nel 1687 della chiesa della Salute, per l’occasione unita a Piazza San Marco con un ponte di barche.

A Treviso la popolazione urbana, che nel 1548 contava quasi 12 mila abitanti, nel 1642 era crollata a 8.500 abitanti. Ma ciò avvenne non tanto per la mortalità, ma per la fuga dei cittadini, che preferirono rifugiarsi “in villa” piuttosto che rischiare il contagio in città. Sia pure in misura più ridotta, data la maggiore salubrità dell’ambiente, la pestilenza incise anche sulla popolazione delle campagne.

Uno degli effetti della peste fu la fuga della borghesia dalle città venete verso le campagne. Questo fenomeno attenuò gli effetti della peste nelle città e trasferì del Pedemonte capitali, investimenti e manodopera qualificata che finiranno col dare nuovo impulso all’economia locale attraverso lo sviluppo delle manifatture della lana, della seta e della carta.

Francesco Guardi, Il doge si reca a Santa Maria della Salute